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Dalla Striscia di Gaza all’Italia: la speranza che passa per un volo umanitario

In questi giorni l’Italia è diventata ancora una volta porto sicuro, non solo simbolicamente, ma in senso reale. A bordo di voli militari partiti dalla frontiera tra Egitto e Striscia di Gaza, sono arrivati nel nostro Paese decine di pazienti palestinesi, tra cui molti bambini, gravemente feriti o affetti da patologie croniche, bisognosi di cure mediche impossibili da ricevere in un territorio devastato dalla guerra.

Si tratta della più ampia operazione umanitaria sanitaria promossa finora dall’Italia a sostegno delle vittime del conflitto in Medio Oriente.

Una missione umanitaria, non solo diplomatica

Il trasferimento dei pazienti è frutto di una complessa collaborazione tra la Farnesina, il Ministero della Difesa, il Dipartimento della Protezione Civile, le Forze Armate, la Commissione Europea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e varie realtà ospedaliere italiane. A bordo dei tre voli giunti nei giorni scorsi, sono arrivati circa 70 pazienti palestinesi, tra cui 17 bambini e adolescenti, accompagnati da 53 familiari.

Uno sforzo umanitario che si aggiunge alle missioni già effettuate nei mesi scorsi: in totale, sono oltre 150 le persone trasferite dall’inizio del conflitto, 133 solo bambini curati nei migliori ospedali italiani tra Milano, Firenze, Roma, Bologna, Padova e Torino.

La storia di Adam, il bambino simbolo della speranza

Tra i tanti volti di questa emergenza, uno in particolare ha colpito l’opinione pubblica: Adam al‑Najjar, 11 anni, è arrivato all’Ospedale Niguarda di Milano insieme a sua madre, Alaa, pediatra. È l’unico sopravvissuto della sua famiglia: un bombardamento aereo nel campo profughi di Khan Younis ha spazzato via i suoi dieci fratelli e altri parenti, lasciandogli sul corpo ferite profonde e permanenti – fratture multiple, ustioni e danni neurologici – ma soprattutto un trauma emotivo difficile da descrivere.

“È un miracolo che sia vivo”, hanno dichiarato i medici. Ad attenderlo in Italia c’erano psicologi, fisioterapisti, chirurghi, ma soprattutto persone pronte a offrirgli non solo cure, ma anche accoglienza e calore umano.

Ospedali italiani in prima linea

Gli ospedali coinvolti nell’iniziativa stanno dimostrando ancora una volta l’eccellenza della sanità pubblica italiana e il volto solidale del nostro Paese. Le strutture ospedaliere accolgono i pazienti gratuitamente, con percorsi personalizzati che tengano conto della lingua, della cultura e della condizione psicologica dei pazienti e dei familiari.

A fianco del personale sanitario, lavorano mediatori culturali, volontari e associazioni che accompagnano le famiglie nei momenti di maggiore difficoltà: dalla gestione del ricovero fino all’integrazione temporanea sul territorio.

La solidarietà come scelta politica

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato che queste operazioni “rappresentano non solo un dovere umanitario, ma anche un segnale concreto della posizione dell’Italia a favore della pace e della tutela dei civili”. In un contesto geopolitico sempre più instabile, la scelta di farsi carico della cura di bambini e adulti feriti da una guerra non combattuta sul nostro suolo diventa anche un gesto politico. Il volto dell’Italia che accoglie, che cura, che salva, è oggi più che mai visibile.

Il futuro dopo le cure

Molti dei pazienti rimarranno in Italia per periodi medio-lunghi, necessari per il completamento dei cicli terapeutici. Per alcuni si prospettano mesi di fisioterapia, riabilitazione e cure psicologiche. Per altri, le dimissioni porteranno a un ritorno incerto in un territorio dove le strutture sanitarie sono ormai al collasso.

Anche per questo, alcune organizzazioni stanno lavorando per offrire forme di accoglienza prolungata, specialmente per i minori che hanno perso le loro famiglie. Il tema dei permessi temporanei, dell’inserimento scolastico e dell’assistenza sociale sarà oggetto di discussione nei prossimi mesi.

Quando la sanità è un ponte tra i popoli

In un mondo segnato da conflitti e muri, l’Italia ha scelto di costruire ponti. E lo ha fatto con bisturi, letti d’ospedale e mani tese. La storia di Adam, e quella di decine di altri pazienti, ci ricorda che l’umanità può ancora superare le barriere della politica e della distanza.

Curare un bambino ferito a Gaza non cancella la guerra, ma accende una luce nel buio. E questa luce oggi parla italiano.

 

 

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