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Perché piangiamo Jota? Il meccanismo scientifico dell’empatia

Perché la morte di Diogo Jota ci fa più male delle migliaia di morti a Gaza? Una riflessione tra cuore e mente

La notizia della morte di Diogo Jota ci ha travolto come un’onda improvvisa. Un ragazzo giovane, un campione, un volto che ci era diventato familiare, che abbiamo visto esultare, lottare, sorridere. All’improvviso, ci ritroviamo a piangere un “estraneo” come se fosse un amico.

E allora ci fermiamo a chiederci: perché ci colpisce così tanto? E perché, invece, facciamo fatica a sentire lo stesso dolore per le centinaia di bambini, donne e uomini che muoiono ogni giorno a Gaza, o in altri conflitti nel mondo?

Questa domanda ci mette a disagio, ma è profondamente umana.

Il legame invisibile: quando un volto diventa parte della nostra vita

Dal punto di vista umano, Jota non era solo un calciatore. Era un simbolo. Un ragazzo che rappresentava la voglia di sognare, la passione per lo sport, il talento che supera le difficoltà. Il nostro cervello costruisce legami anche senza un contatto diretto: lo vediamo in tv, leggiamo le sue interviste, lo sentiamo parlare delle sue paure e delle sue vittorie. In un certo senso, entra nelle nostre giornate.

Questo meccanismo è noto in psicologia come parasocial relationship: relazioni unilaterali che costruiamo con personaggi pubblici, che sentiamo vicini pur non conoscendoli davvero. Per questo, quando muoiono, ci sembra di perdere qualcuno di caro.

La fatica di sentire il dolore collettivo

Quando leggiamo di Gaza, invece, il nostro cervello si trova davanti a numeri spaventosi: 100, 500, 10.000 vittime. È difficile dare un volto a ognuna di queste persone. È ciò che la psicologia definisce “fatica da compassione” (compassion fatigue) o anche “innumeracy emotiva”: la nostra mente non riesce a elaborare emozioni per grandi numeri.

Paul Slovic, uno studioso che ha dedicato anni a questo tema, spiega che la mente umana è progettata per reagire in modo empatico a storie individuali, non a statistiche. Per questo, un solo volto o un solo nome possono smuovere più empatia di intere colonne di cifre.

L’effetto specchio: riconoscersi nella fragilità

La morte di Jota ci sconvolge anche perché ci costringe a guardarci allo specchio. Era giovane, in salute, apparentemente invincibile. La sua scomparsa ci ricorda che nessuno è al sicuro, che la vita è fragile, improvvisa, ingiusta.

Di fronte a una guerra lontana, spesso pensiamo: “Lì è diverso”, “A noi non può succedere”. Ma quando muore un nostro “eroe”, la distanza si annulla. È come se il sipario della nostra sicurezza si strappasse, lasciandoci nudi e vulnerabili.

Il paradosso umano

Questo non significa che valga di più. Nessuna vita vale più di un’altra. Ma significa che la nostra mente e il nostro cuore non sono progettati per pesare la sofferenza in modo razionale.

Forse, riconoscere questa fragilità — e non sentirsi in colpa — può aiutarci ad aprirci di più anche al dolore degli altri. Magari, a partire dal volto di Jota, possiamo imparare a dare un volto anche a chi non ne ha uno sui nostri schermi.

Un invito alla compassione

Alla fine, la morte di Jota ci scuote perché ci avvicina alla nostra umanità. Ci ricorda che dietro ogni numero c’è una storia, un sogno, una famiglia. E che non dobbiamo smettere di sentire, anche quando fa male.

Non serve scegliere “chi piangere di più”. Possiamo piangere Jota, e allo stesso tempo ricordarci che, nel silenzio del mondo, ci sono migliaia di vite che meritano la stessa carezza di umanità.

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