La partita di ieri sera tra Italia e Israele (3-0) non si è giocata soltanto sul campo.
Mentre gli Azzurri festeggiavano la vittoria, fuori dagli spalti — e in parte anche sugli spalti — esplodevano proteste, cori, bandiere e slogan che nulla avevano a che fare con il calcio. Alcune manifestazioni, inizialmente pacifiche, sono presto degenerate in tensioni e scontri. Il conflitto israelo–palestinese, ancora una volta, ha travolto anche ciò che dovrebbe restare neutrale: lo sport.
E allora la domanda sorge spontanea: può davvero esistere la neutralità nello sport, quando il mondo brucia?
Negli ultimi anni, i confini tra sport e politica si sono fatti sempre più sottili. L’idea romantica dello sport come linguaggio universale, capace di unire i popoli, sembra vacillare sotto il peso di guerre, sanzioni e propaganda.
Quando la Russia invase l’Ucraina, la risposta internazionale fu rapida e compatta: federazioni, comitati olimpici, leghe e sponsor privati si affrettarono a escludere Mosca da ogni competizione. Nessuna bandiera, nessun inno, nessun compromesso.
Ma nel caso di Israele, nonostante le accuse di violazioni umanitarie e le immagini di distruzione a Gaza, le porte delle competizioni internazionali restano aperte. Le federazioni parlano di neutralità, ma la sensazione diffusa è che ci siano due pesi e due misure.
Due guerre, due reazioni
Le ragioni di questa disparità sono molteplici.
Nel caso della Russia, la violazione dei confini ucraini è stata letta come un attacco diretto all’ordine mondiale, e dunque una minaccia collettiva. Nel caso di Israele, invece, le relazioni politiche, storiche e diplomatiche con l’Occidente rendono la condanna più complessa e piena di sfumature.
A ciò si aggiunge la narrazione mediatica: l’invasione dell’Ucraina ha avuto una copertura compatta, con una chiara distinzione tra aggressore e aggredito. Il conflitto israelo–palestinese, invece, vive da decenni in un limbo comunicativo dove tutto è controverso, tutto è interpretabile, e ogni parola può diventare un’arma.
Il peso della coerenza
Ma oltre la politica e i media, resta una questione di coerenza morale.
Se lo sport pretende di rappresentare valori universali — pace, rispetto, solidarietà — allora dovrebbe applicarli con la stessa misura ovunque.
Non si tratta di decidere chi ha ragione o torto, ma di non voltarsi dall’altra parte a seconda del nome del Paese coinvolto.
Le proteste di ieri sera, per quanto sfociate in episodi di violenza da condannare senza esitazione, rivelano un disagio reale: quello di un pubblico che non si riconosce più in un sistema che proclama giustizia ma pratica convenienza.
Forse non possiamo chiedere allo sport di risolvere i conflitti del mondo. Ma possiamo chiedergli di non essere complice dell’ipocrisia.
Perché finché la sofferenza sarà giudicata in base alla geografia, la parola “pace” resterà solo uno slogan da stadio.
